È frequente che il fallimento del proprio matrimonio comporti conseguenze sul piano psichico, soprattutto nelle donne, dando luogo a disturbi di tipo depressivo che possono incidere anche nell’ambito lavorativo
La giurisprudenza si è occupata più volte della depressione laddove lo stato asseritamente invalidante preclude le possibilità di potersi procacciare un lavoro o di proseguire quello precedente.

di Roberto Thomas
già magistrato minorile a Roma- direttore del corso di perfezionamento in criminologia minorile e psicologia sociale presso l’università LUMSA di Roma

Il problema principale che affligge da molti anni la nostra giustizia è l’estrema lunghezza dei processi, sia civili che penali, tanto è vero ciò che già con la legge costituzionale 23 novembre 1999 n.2 si introdusse un nuovo secondo comma all’art. 111 della Costituzione, che dopo aver riaffermato il principio dell’imparzialità del giudice, prevede “la ragionevole durata”dei procedimenti giudiziari .

La situazione in cui ci troviamo inaspettata e senza alcuna precedente esperienza in tal senso, tra gli altri effetti ha comportato quello della forzata coabitazione tra familiari, coniugi e compagni all’interno di uno stesso alloggio 24 ore su 24. Secondo alcuni, tale forzata coabitazione porterà inevitabilmente all’acuirsi di quelli che erano i contrasti, prima sopiti dalla lontananza, invece ora accentuati dalla presenza, costante e continua, all’interno della stessa abitazione, sicché scherzosamente si ipotizza un incremento di lavoro per gli avvocati al termine dell’emergenza sanitaria.

Di particolare interesse è la sentenza n° 6926 depositata il 21 febbraio 2020 dalla Corte di Cassazione penale che annullava la condanna di un imprenditore il quale, dopo aver subito la notifica della cartella di pagamento, cedeva le quote della sua società al coniuge, impedendo quindi all’amministrazione fiscale di poter procedere all’esecuzione forzata.

Il padre domandava al Tribunale di annullare l’assegno di mantenimento per il figlio che si dichiarava depresso, rilevando che ormai a trentadue anni non sussistesse più il diritto al mantenimento.
Per di più essendosi lo stesso laureato in archeologia poteva provvedere alla ricerca di un lavoro ed al proprio sostentamento.

A poco a poco la giurisprudenza sta rivedendo, o più esattamente demolendo i principi che erano stati fissati dalla famosa decisione della Cassazione n° 11504 del 2017 con la quale era stato escluso il diritto all’assegno divorzile in favore della donna ritenendo che il matrimonio facesse cessare ogni obbligo vicendevole.
Ciò con la sola eccezione della mancanza di un reddito adeguato, reddito che secondo la giurisprudenza di merito era stato indicato in circa € 1.000,00.
Dunque al di sopra di tale soglia l’assegno divorzile non doveva più tenere conto del tenore di vita, ma doveva semplicemente essere negato.

Pubblicazioni Avv. Maurizio Bruno

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