La situazione in cui ci troviamo inaspettata e senza alcuna precedente esperienza in tal senso, tra gli altri effetti ha comportato quello della forzata coabitazione tra familiari, coniugi e compagni all’interno di uno stesso alloggio 24 ore su 24. Secondo alcuni, tale forzata coabitazione porterà inevitabilmente all’acuirsi di quelli che erano i contrasti, prima sopiti dalla lontananza, invece ora accentuati dalla presenza, costante e continua, all’interno della stessa abitazione, sicché scherzosamente si ipotizza un incremento di lavoro per gli avvocati al termine dell’emergenza sanitaria.
Normalmente ciascuno di noi vive in famiglia un tempo limitato della propria vita, in quanto la maggioranza del tempo lo trascorre al di fuori, nell’ambito lavorativo o comunque in attività esterne.
Questa nuova situazione ha stimolato la fantasia dei vignettisti.
Tra le innumerevoli immagini comparse in questo periodo, ad accentuare la mancata abitudine a frequentare i propri cari, molto simpatico è il messaggio: “Sto vivendo con i miei familiari: mi sembrano brave persone”.
SEPARATI IN CASA
L’occasione ci dà invece l’opportunità di trattare un argomento che è molto frequente nella pratica giudiziaria.
Alludiamo a quelle situazioni in cui i coniugi od i conviventi non hanno più nulla in comune, o peggio hanno relazioni con terzi, eppure non sono in grado di affrontare la separazione, non tanto perché non possono sostenere i costi della procedura giudiziaria, quanto perché non sono in grado di abbandonare l’alloggio e di sopportare gli oneri di un’altra abitazione.
Del resto il presupposto della pronuncia della separazione e dello status di separati è proprio quello di vivere ognuno per proprio conto e tale è il fine di ogni crisi matrimoniale o di convivenza.
Inoltre espressamente la normativa prevede che, in presenza di figli, sia in caso di separazione che in un rapporto di mera convivenza, la casa debba essere attribuita dal Tribunale ad uno solo dei due genitori con estromissione dell’altro e concessione di un termine per il rilascio dell’alloggio.
Una volta determinato l’affidamento, il collocamento del minore, l’esercizio della responsabilità genitoriale ed il diritto di visita per il genitore non collocatario, il secondo problema più rilevante anche sotto il profilo economico, è quello dell’assegnazione della casa familiare all’uno od all’altro.
ASSEGNAZIONE DELLA CASA IN FUNZIONE DELL’INTERESSE DEI FIGLI
Attualmente dopo varie sollecitazioni, la normativa a tutela dei minori o dei figli maggiorenni non autonomi è stata modificata nel codice civile, facendo proprie le statuizioni consolidate della giurisprudenza.
In tal senso l’art. 337 sexies statuisce che il godimento della casa familiare viene attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.
Dunque, presentando la domanda di separazione al Tribunale, alla prima udienza presidenziale per l’affidamento ed il collocamento dei minori, il giudice provvederà assegnando la casa sempre al coniuge collocatario della prole.
Sostanzialmente ciò significa che l’altro genitore, o ha già lasciato l’alloggio, oppure gli verrà assegnato un termine per il rilascio.
Se non vi sono figli, il Tribunale non emette di norma alcun provvedimento sul tema dell’alloggio, ed il proprietario può riottenerne il possesso attivando la procedura di estromissione dell’altro ed a tutela della proprietà.
Se la casa poi è in comunione, in caso di mancato accordo circa il pagamento di un canone o dell’acquisto da parte dell’uno o dell’altro, si procederà allo scioglimento della comproprietà mediante la nomina di un perito del Tribunale e successiva vendita dell’immobile al miglior offerente con suddivisione del ricavato ex art. 1111 c.c. e 784 e seg.ti c.p.c..
L’ESTROMISSIONE FORZATA
Una volta che il Presidente del Tribunale o il Collegio abbia emesso il provvedimento di assegnazione della casa, ove l’altro non rilasci l’alloggio, potrà procedersi ai normali mezzi di esecuzione forzata.
In tal senso sarà sufficiente richiedere due copie esecutive del provvedimento, notificarlo unitamente all’atto di precetto di rilascio, (parte della giurisprudenza ritiene che non sia neanche necessario in caso di mancato rilascio dell’alloggio notificare il precetto, potendosi procedere anche direttamente in modo esecutivo con l’ufficiale giudiziario), ed infine consegnare il titolo esecutivo con il precetto all’ufficiale giudiziario procedente, affinché materialmente immetta nel possesso l’assegnatario dell’alloggio estromettendone l’altro.
L’assegnazione della casa e la relativa estromissione forzata, costituisce uno degli aspetti maggiormente penalizzanti per colui che viene estromesso, soprattutto allorché sia proprietario unico e comproprietario dell’alloggio, o peggio quando debba continuare a pagare le rate del mutuo dalla casa dalla quale è stato estromesso.
D’altra parte la casa è anche il punto di riferimento dei figli, i quali hanno diritto a rimanere nello stesso alloggio in cui sono sempre vissuti, al di là dei contrasti fra i genitori.
Di norma l’assegnazione della casa familiare comporterà l’assegnazione del mobilio ivi contenuto ed il genitore tenuto ad allontanarsi potrà asportare quindi solo i propri effetti personali.
L’assegnazione della casa con il provvedimento del giudice comporterà che il genitore beneficiario subentrerà in tutti i diritti e doveri correlati, come il pagamento degli oneri condominiali e simili.
Quanto agli oneri condominiali straordinari questi rimarranno a carico del proprietario.
RICORSO CONGIUNTO ED IMPOSSIBILITA’ DI LASCIARE LA CASA
Spesso capitano a studio, coniugi o genitori, i quali pur non sopportandosi a vicenda, e pure essendo entrambi assolutamente d’accordo su un’unica cosa e cioè sulla necessità di separarsi, tuttavia non sono in grado di procacciare un altro alloggio nel quale andrà a vivere l’estromesso
Secondo stime statistiche attuali, le coppie di ex coniugi che rimangono a vivere sotto lo stesso tetto pur essendo separate di fatto, costituiscono ben il 20% di tutte le separazioni consensuali pronunciate in Italia.
In tal senso va detto che i Tribunali di norma non consentono di pronunciare la separazione e di lasciare contemporaneamente i coniugi sotto lo stesso tetto.
Ciò anche perché la convivenza può precludere successivamente alla pronuncia di divorzio, laddove il presupposto proprio della cessazione o dello scioglimento del matrimonio è che non vi sia stata riconciliazione tra i coniugi.
Al di là della “riconciliazione” tra i coniugi che costituisce il presupposto del divorzio, resta comunque il fatto che chiedere al Tribunale di rimanere nello stesso alloggio, difficilmente verrà accettato dal giudice.
Ciò in quanto la separazione dei coniugi presuppone secondo la giurisprudenza, la cessazione della comunione materiale e spirituale del matrimonio in presenza di fatti che rendono intollerabile la prosecuzione della convivenza o che rechino grave pregiudizio all’educazione della prole.
LA CASA DIVISIBILE ED IL TERMINE PER IL RILASCIO
Il Tribunale nell’autorizzare i genitori a vivere separati assegna dunque l’alloggio ad uno dei coniugi o ad uno dei conviventi se vi è prole minorenne o maggiorenne non autonoma e contestualmente, ove l’alloggio non sia stato lasciato, concede un termine per il rilascio.
Deve trattarsi di un termine ragionevole di qualche settimana o di uno o due mesi, ma non superiore.
In altra ipotesi la convivenza viene autorizzata rapportando il rilascio ad un evento futuro, seppur a breve termine, come ad esempio la vendita dell’immobile a terzi o la locazione di altro alloggio, ma si tratta sempre di pronunce temporanee e che non rientrano nella norma.
Tutt’altro discorso viceversa se la casa sia di grandi dimensioni con ingressi separati e sia divisibile materialmente, sicché il Tribunale possa assegnare una parte dell’alloggio, autonomo rispetto all’altro, ad un interessato e contestualmente possa lasciare la residua parte dell’alloggio all’altro.
Tali scelte, ove la casa lo permetta, danno la possibilità ad un genitore di mantenere la vicinanza con i figli, anche se talvolta la creazione di altri rapporti sentimentali può creare contrasti.
Ricordiamo il caso singolare di una nostra anziana cliente che alloggiando nella parte bassa di un villino vedeva ogni giorno il proprio ex coniuge salire con la nuova giovane compagna dell’est Europa e, non sopportando tale situazione, non prevista al momento dell’accordo, si informava su quale sarebbe stata la pena se avesse soppresso il marito durante uno di questi incontri!
LA PRONUNCIA DI DIVORZIO
Quanto al divorzio, la convivenza sotto lo stesso tetto di norma, salve situazioni particolari, inibisce il provvedimento.
Tuttavia va ricordato, in senso contrario, un caso nel quale il Tribunale e la Corte d’Appello avevano rigettato la domanda divorzile, mentre la Cassazione forniva un’interpretazione diversa, accogliendo il ricorso.
La questione nasce dalla lettura dell’art. 157 del codice civile, che statuisce come i coniugi possano di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.
La legge divorzile n. 898/70 statuisce, a completamento, come è noto, che il divorzio può essere pronunciato alla duplice condizione: che sia decorso il termine di legge (un anno in caso di separazione giudiziale dal passaggio in giudicato della sentenza o sei mesi in caso di omologazione della separazione consensuale) e che contestualmente la separazione si sia protratta ininterrottamente.
L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta.
Combinando le due disposizioni, in un caso in cui i coniugi separati erano però rimasti a vivere sotto lo stesso tetto, come si accennava, sia il Tribunale che la Corte d’Appello rigettavano la domanda divorzile, non sussistendo il periodo dell’interrotta separazione.
Tuttavia la Corte di Cassazione con una sentenza innovativa, (la n. 3323/2000), stabiliva viceversa che i coniugi “separati in casa” potessero ottenere egualmente la sentenza di scioglimento degli effetti civili di matrimonio, pur avendo continuato a vivere sotto lo stesso tetto durante la separazione legale
Questo perché, ciò che è rilevante è che non vi sia stata “comunione materiale e spirituale”, e cioè che non sussista la volontà di “riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita”.
Secondo la Cassazione trattandosi di una anomala separazione in casa, laddove i coniugi, pur dividendo il tetto, provvedevano autonomamente alle proprie necessità ed alla propria gestione, rimanendo in due ambienti distinti, consumando i pasti separatamente e dormendo in due camere separate, senza alcuna partecipazione dell’uno nella vita dell’altro, andava ribaltata la decisione delle precedenti corti e veniva accolta la domanda divorzile.