E’ frequente ormai da qualche tempo il fenomeno dei coniugi i quali, stante il momento di crisi, si rivolgono al tribunale per richiedere la separazione consensuale non perché realmente ritengano di separarsi, ma al solo fine di trasferire, in esenzione di imposta, i beni all’altro coniuge sottraendoli così ai creditori di uno di essi.
L’art. 8 della legge divorzile n° 898/70 e successive modifiche, ai commi da tre a sette ha introdotto una procedura rapidissima per ottenere il pagamento del mantenimento per il figlio e dell’assegno divorzile per la moglie, direttamente dal datore di lavoro dell’ex coniuge.
Accanto alla tutela offerta dai normali mezzi di esecuzione forzata previsti dall’ordinamento, l’art. 156 del codice civile in tema di separazione prevede espressamente una serie di mezzi di tutela a favore del coniuge avente diritto all’assegno di mantenimento.
Il Tribunale di Roma, in una recentissima sentenza, ha affrontato il problema della casa occupata dal figlio e inutilmente reclamata dalla madre, al punto che questa è stata costretta a rivolgersi al giudice per ottenerne il rilascio.
Si riteneva, con l’entrata in vigore della legge n. 54/06, che fosse stato posto definitivamente termine alle ingiustizie subite dai padri, di fatto estromessi dalla gestione della prole. Molti tuttora sono convinti che i periodi di permanenza del bambino presso ciascun genitore con la disciplina attuale siano paritari.
Osserviamo, innanzi tutto, a differenza di quanto avviene nel divorzio, che in caso di separazione la pensione di reversibilità è sempre dovuta al coniuge superstite (in genere la moglie), anche se la separazione sia stata a lei addebitata.
L’art. 12 della legge divorzile 890/70 e successive modifiche così recita: “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze, e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge, all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al 40% dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio”.
Si è passati da un’epoca in cui le cause di separazione venivano basate sul “difetto di verginità” (negli anni ’50 sul tema venivano scritti tomi di diritto) a situazioni viceversa in cui sono le donne che citano in giudizio gli uomini chiedendo risarcimenti a cinque cifre per il mancato adempimento dei doveri coniugali (al Tribunale di Roma pende una causa promossa da una signora che pretende dal marito, dopo un fidanzamento “normale” sotto il profilo fisico, un mega risarcimento da “inadeguatezza sessuale” durante i successivi cinque anni di matrimonio).
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