Singolare vicenda è quella esaminata dalla Cassazione con la sentenza n° 22270 depositata il 04/08/2021.
La questione trae origine da una separazione consensuale concordata tra un commercialista e la moglie, separazione nella quale il marito si impegnava ad un adeguato assegno di mantenimento, nonchè a versare l’ingente somma di € 100.000,00 in favore della moglie.
Successivamente, pentitosi degli accordi, si rendeva inadempiente e, sostenendo implicitamente di non essere stato adeguatamente difeso, si rivolgeva al Tribunale domandando l’annullamento delle condizioni della separazione, ritualmente omologata dal Tribunale di Milano, in quanto, a suo dire, il consenso sarebbe stato estorto e quindi era da ritenersi viziato.
Chiedeva quindi sostanzialmente l’annullamento della separazione e delle pattuizioni ivi contenute, la restituzione di quanto pagato fino a quel momento e la condanna della moglie al danno da determinarsi in € 50.000,00 o nella somma diversa ritenuta dal Tribunale.
LA VIOLENZA ASSERITAMENTE SUBITA
Il commercialista rilevava infatti, con la domanda di annullamento della separazione proposta al Tribunale, di essere stato costretto a firmare a condizioni inique, non proporzionali neanche al proprio reddito; ciò in quanto la moglie lo avrebbe minacciato che, in caso diverso, avrebbe spostato la propria residenza e quella della figlia a Palermo e cioè a quasi 1000 chilometri di distanza, rendendo impossibile la prosecuzione degli incontri con la minore o quanto meno rendendo gli stessi estremamente difficoltosi.
In più aggiungeva che la moglie aveva approfittato di un particolare stato di debolezza psichica del marito il quale, incautamente, forse malconsigliato e nel timore di perdere l’affetto della figlia, era stato indotto a sottoscrivere l’accordo.
Il Tribunale di Milano respingeva la domanda in quanto il ricorrente, persona di elevato livello culturale, commercialista esperto di diritto e di economia, era sicuramente nella condizione di valutare perfettamente il contenuto degli accordi.
Inoltre tali accordi erano stati considerati congrui dal Tribunale.
Infine lo stesso fatto che si fosse sottratto nel frattempo al pagamento di quanto pattuito, chiariva perfettamente che non fosse per nulla intimorito dalle conseguenze negative giuridiche derivanti da tale inadempimento.
La Corte d’Appello di Milano sostanzialmente confermava le stesse deduzioni rigettando l’impugnazione ed escludendo che comunque vi fosse alcuna prova della violenza subita, né che ricorressero i presupposti per la rescissione (domanda subordinata del commercialista) dagli accordi della separazione.
IL RICORSO ALLA CORTE SUPREMA
Il commercialista non accettando le decisioni ricorreva alla Cassazione rilevando che, né i giudici della Corte d’Appello né del Tribunale, si erano resi conto della perfetta ammissibilità delle prove circa l’esistenza della minaccia e soprattutto circa l’efficacia di tale minaccia tale da intimorirlo e condurlo alla sottoscrizione di condizioni inique della separazione.
Né avrebbero correttamente considerato lo stato di sudditanza psicologica; ingiustamente erano stati rigettati nove capitoli di prova testimoniale ritenuti irrilevanti, ininfluenti o inammissibili, riferendosi a prove de relato e sostanzialmente su confidenze effettuiate dal commercialista a terzi
IL RIGETTO DELLA SUPREMA CORTE
La Corte di Cassazione rilevava innanzitutto l’inammissibilità del ricorso per una violazione processuale, laddove non era stata depositata, unitamente alla sentenza, la relata di notifica, rendendo così impossibile l’accertamento del rispetto del termine dell’impugnazione dei 60 giorni.
Tuttavia, al di là di tale motivo processuale, il Collegio riteneva di entrare anche nel merito della vicenda, abbracciando e facendo proprie di fatto le considerazioni del Tribunale e della Corte d’Appello.
La Suprema Corte in particolare rilevava che andava condivisa la valutazione della Corte d’Appello circa la non credibilità della minaccia e sulla inammissibilità delle prove richieste. Queste infatti vertevano tutte sul punto che la moglie avrebbe minacciato il marito di trasferire la propria residenza e quella della figlia in Sicilia e, solo per sottrarsi a tale pericolo egli avrebbe prestato il proprio consenso.
In realtà, rileva la Cassazione, la minaccia per essere valida e per avere effetto caducatorio dell’accordo contrattuale ai sensi dell’art. 1435 c.c. deve essere credibile e cioè tale da impressionare una persona sensata facendo temere di esporre sè o i propri beni ad un male ingiusto e notevole.
Va tenuto conto sotto tale profilo delle circostanze reali di fatto e cioè dell’età, del sesso, delle condizioni culturali delle persone coinvolte e di ogni altro elemento utile alla valutazione.
Nel caso specifico la minaccia non aveva alcuna di queste caratteristiche in quanto, non sussistendo alcuno stato di incapacità di intendere e volere o comunque alcuna riduzione della capacità intellettiva, essa era priva di efficacia intimidatoria.
Del resto il commercialista doveva sapere perfettamente e comunque non poteva ignorare, che lo spostamento a 1000 chilometri di distanza, non poteva essere effettuato autonomamente dalla moglie, ma era sottoposto alla preventiva autorizzazione ed esame del Tribunale.
Dunque il ricorrente era a perfetta conoscenza che senza l’autorizzazione del giudice della separazione, la moglie non avrebbe mai potuto trasferire la residenza, privandolo del diritto di visita.
Neanche in via subordinata era ammissibile l’ipotesi della rescissione del contratto per lesione, circostanza peraltro mai dedotta in primo grado, in considerazione della mancanza dell’assunzione di obbligazioni a condizioni inique, presupposto alla cui ricorrenza era subordinata l’impugnativa.
La Corte concludeva per il rigetto della domanda condannando pesantemente il Commercialista alle spese in ben € 8.000,00 oltre accessori ed oneri fiscali ed al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.