Separazione: inutile richiedere quanto speso per la ristrutturazione della casa di coabitazione. Il coniuge proprietario non restituisce nulla salvo il costo dei lavori effettuati prima del matrimonio

La questione molto comune nelle aule di giustizia è quella che riguarda la pretesa di mariti o mogli, dopo la separazione, di richiedere all’altro, proprietario esclusivo della casa, la restituzione di tutte le somme spese per la sistemazione o la ristrutturazione dell’alloggio stesso.

 

La giurisprudenza tuttavia si è orientata ormai in senso assolutamente negativo.
Tale soluzione viene vissuta come una sostanziale ingiustizia ed un ingiustificato arricchimento per il proprietario, in danno di coloro che hanno investito nella casa comune durante il rapporto di coniugio, talvolta somme importanti e che si trovano estromessi dall’alloggio a seguito della separazione, senza possibilità di recuperare il danaro.
Ancora peggio se il fallimento dell’unione è imputabile al proprietario dell’abitazione.
Il rifiuto dei tribunali nel riconoscere quanto speso va ad acuire quasi sempre i contrasti fra i coniugi, in quanto il proprietario dell’alloggio otterrà e tratterà il beneficio derivante dal miglioramento dell’immobile, mentre chi ha sostenuto l’onere si troverà privato dell’equivalente somma di denaro e senza possibilità di alcun recupero.

Somme prelevate dal patrimonio personale
La questione nasce da una visione restrittiva del Codice Civile in tema di regime patrimoniale da parte della Cassazione.
Come è noto, in tema di comunione, ex art. 192 c.c., da un lato ciascun coniuge deve rimborsare all’altro il danaro prelevato dal patrimonio comune e impiegato per scopi diversi dal soddisfacimento delle esigenze familiari e dall’altro, ed è questo il punto, il coniuge può richiedere all’altro la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed utilizzate per spese ed investimenti sul patrimonio comune.

Quindi teoricamente sussisterebbe il diritto di recuperare il proprio danaro speso per l’alloggio di proprietà dell’altro.
In realtà tuttavia l’interpretazione giurisprudenziale della Cassazione ritiene che tale principio non si applichi alla casa coniugale, in quanto l’elargizione per migliorare il “nido comune” viene configurato come una donazione, donazione che va inquadrata nel rispetto e nell’adempimento di un obbligo che è previsto dalla legge a carico di entrambi i coniugi, e cioè quello di provvedere alla famiglia anche sotto il profilo economico.
Numerose sono le sentenze in questo senso (per es. n. 24160/2018) con le quali si è stabilito che il coniuge che si sobbarchi le spese per la ristrutturazione dell’immobile comune, non potrà ripetere alcun onere sostenuto, anche se la casa è di proprietà di uno solo di essi, poiché in costanza di matrimonio deve presumersi la sussistenza di una donazione indiretta e le donazioni godono di stabilità, non potendo essere revocate che in caso di ingratitudine.
Dunque sussiste il diritto del beneficiario di trattenere quanto acquisito.

In senso analogo numerose altre decisioni (vedasi anche Cass. n. 10942/2015) che sostanzialmente reiterano lo stesso principio.
Secondo tali sentenze, le opere per le quali si chiede il rimborso, sono in realtà finalizzate a rendere più confacente alle esigenze della famiglia, l’abitazione messa a disposizione di uno dei coniugi, proprietario esclusivo ed utilizzata come casa comune.
Perciò le spese sostenute da uno di essi devono ritenersi compiute per il soddisfacimento dei bisogni familiari e conseguentemente la spesa si considera come una donazione avvenuta in adempimento dell’obbligo di contribuzione ex art. 143 c.c. e non sussiste alcun diritto al rimborso.
Unica eccezione a detto principio sono tutte le spese che fuoriescono dal matrimonio, ovvero le ristrutturazioni effettuate prima della formalizzazione dell’unione, o dopo la separazione, escludendo però tutte quelle effettuate in corso del coniugio.
Ovviamente il problema si pone solo allorchè l’abitazione sia di proprietà esclusiva di un solo coniuge, perché, ove la casa sia comune, in tale ipotesi è ben possibile che ciascuna parte possa richiedere lo scioglimento della comunione e conseguentemente in caso di opposizione la vendita dell’immobile e la distribuzione del ricavato secondo le quote di proprietà.

Lo stratagemma della tutela possessoria ex art.1150 c.c.
Per ovviare a tale orientamento negativo alcuni coniugi estromessi dall’alloggio a seguito della separazione ed irritati dall’aver investito nell’immobile somme particolarmente ingenti, ricorrevano al disposto di cui all’art. 1150 c.c. in tema di riparazioni, miglioramenti ed addizioni effettuate dal possessore.
La norma, che invero nulla ha a che vedere con la disciplina in tema di separazione e divorzio, statuisce che il possessore ha diritto ad una indennità per i miglioramenti recati al bene, purché sussistano al tempo della restituzione.
Tale indennità deve corrispondere ed essere computata nella misura dell’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto dei miglioramenti.
Invocando tale disposizione si riusciva ad ottenere un risultato simile a quello che si sarebbe ottenuto se il Tribunale avesse riconosciuto il rimborso delle spese effettuate per la casa in proprietà esclusiva dell’altro coniuge, dopo la separazione.

Tuttavia la Cassazione di recente con la sentenza n° 23882 pubblicata il 03/09/2021 ha sostanzialmente precluso anche questa strada, ritenendo che il fatto di essere convivente in un rapporto sentimentale o coniugale con la proprietaria esclusiva dell’alloggio, non attribuisce ipso jure la qualifica di compossessore dell’immobile, ma solo quella di detentore qualificato.
Nel caso specifico si trattava di una donna, proprietaria della casa, che era stata condannata a pagare all’ex coniuge, sulla base della sentenza, oltre € 41.000,00 a titolo di indennizzo per i miglioramenti eseguiti ed ulteriori € 19.540,00 viceversa per il rimborso delle opere eseguite prima del matrimonio.
Proponeva ricorso la donna sostenendo che non si potesse applicare il principio di cui all’art. 1150 c.c. assumendo che in realtà il marito non era compossessore del bene, ma un semplice detentore e quindi non andasse riconosciuta l’indennità per i miglioramenti.
In particolare la donna denunciava la violazione e la falsa applicazione dei principi in tema di tutela possessoria ed in particolare degli art.li 1150 e 1141 c.c. rilevando che la norma non era applicabile nel caso concreto, in quanto il coniuge non proprietario non poteva essere ritenuto automaticamente possessore della casa coniugale per il semplice fatto della convivenza, potendo vantare al più una posizione di detentore qualificato.

La Cassazione, fermo restando il diritto del marito a recuperare le somme pagate per la ristrutturazione della casa prima del matrimonio, per quanto riguardava le richieste indennità relative ai miglioramenti effettuati in costanza di coniugio, accoglieva il ricorso ed escludeva il diritto dello stesso ad ottenere automaticamente tali indennità commisurate all’aumentato valore della casa.
Ciò in quanto diveniva inapplicabile la norma di cui all’art. 1150 c.c. che riguardava il solo possessore, dovendosi valutare il rapporto effettivo e l’atteggiamento del ricorrente nel caso concreto. In assenza di prove specifiche in sostanza non si può considerare il coniuge compossessore dell’immobile anziché mero detentore, soltanto per la circostanza della convivenza more uxorio con la proprietaria.

Pubblicazioni Avv. Maurizio Bruno

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