Il 10/05/2017 con la sentenza n° 11504 la Cassazione mutava repentinamente opinione e dichiarava che, poiché il divorzio faceva cessare ogni rapporto tra gli ex coniugi, non vi era più alcun presupposto giuridico che legittimasse una “ultra attività” delle obbligazioni matrimoniali. Quindi l’assegno non doveva più essere versato alla ex moglie, a meno che questa fosse priva di reddito.
Ora la Cassazione a sezione unite ci ripensa e con la sentenza n.18287 del luglio 2018 reintroduce l’assegno di divorzio, capovolgendo il precedente orientamento e valorizzando l’apporto dato dalla donna alla famiglia ed alla creazione del patrimonio comune.
LA SENTENZA N°11504 DEL 10/05/2017: NESSUN DIRITTO ALL’ASSEGNO
Con la decisione del 2017 che deflagrava nel mondo giuridico in modo inaspettato, cambiando le carte in tavola, dopo quasi 30 anni di assegno divorzile rapportato al tenore di vita, la Cassazione dichiarava, come fosse assurdo determinare un assegno a carattere assistenziale connesso con il tenore di vita della famiglia, laddove lo scopo del divorzio era proprio quello di far cessare ogni rapporto fra gli ex coniugi.
L’unico caso in cui l’assegno, peraltro in limiti modesti, poteva essere rivendicato secondo tale orientamento si rinveniva nell’ipotesi in cui la donna non avesse un reddito sufficiente ovvero fosse nell’impossibilità di procurarsene uno.
Diversamente si doveva escludere totalmente il diritto a percepire alcunché.
La stessa sentenza suggeriva fra le righe alle donne di non contare più sul matrimonio come sistemazione definitiva dei propri interessi, ma di basarsi esclusivamente sulle proprie capacità professionali in quanto il matrimonio secondo la sentenza “non può più essere inteso come sistemazione definitiva …”.
UNA SENTENZA SUPERFICIALE
La decisione seppure aveva il merito di aver ridimensionato le richieste talvolta estremamente esose di alcune divorziande, aveva tuttavia il gravissimo torto di aver fatto di ogni erba un fascio.
Infatti quasi tutti gli operatori del diritto notarono immediatamente che in questa maniera si andavano a pregiudicare le situazioni molto frequenti nelle quali la donna, su accordo dei coniugi, si era dedicata esclusivamente alla famiglia, trascurando la propria professionalità e capacità lavorativa o l’utilizzo dei propri titoli di studio, così permettendo al marito di effettuare una carriera estremamente vantaggiosa e rilevante, salvo poi ritrovarsi, dopo la chiusura del matrimonio a dover rimpiangere di non essersi dedicata alla tutela dei propri interessi per supportare la famiglia.
Infatti in età magari avanzata, applicando tale principio di diritto, molte donne si sarebbero trovate a sopravvivere con un modesto reddito, mentre il marito non infrequentemente con la nuova compagna avrebbe usufruito di tutti i beni comprati insieme, ma non a lei intestati, e di grandi possibilità economiche, (case al mare, imbarcazioni, vetture di prestigio, vacanze costose etc ) creando una situazione di oggettiva ingiustizia, situazione che la sentenza non aveva affatto esaminato o considerato.
La decisione della Suprema Corte assunta in modo frettoloso, secondo alcuni anche con un certo protagonismo, lasciava dunque perplessi, in quanto in assenza di un ripensamento, si sarebbe finito con l’attribuire ad anziane donne una vecchiaia ben misera, punendole nell’aver sacrificato la propria vita dedicata alla famiglia ed ai figli, per permettere all’ ex coniuge di sviluppare la propria carriera ed il proprio patrimonio.
Dopo la pubblicazione della sentenza n°11504 del 10/05/2017 che aveva annullato il diritto per la donna di ottenere un assegno divorzile, gli studi legali, come abbiamo già detto in altra occasione, hanno iniziato ad essere tempestati di domande da donne preoccupate o da mariti che volevano rivedere gli accordi divorzili, atteso che, il diritto dell’assegno divorzile in modo proporzionale al reddito del marito, comportava attribuzioni di tutto rispetto in molte occasioni e quindi il timore di perderlo, o la possibilità di annullarlo, spaventava o, all’opposto, faceva gola a molti.
LA CASSAZIONE A SEZIONI UNITE N°18287 DELL’11/07/2018 – UN TOTALE RIPENSAMENTO
A fronte delle innumerevoli critiche la Corte suprema a sezioni unite, melius re perpensa, rivedeva la propria posizione annullando la precedente decisione, e con la sentenza n°18287 depositata l’11/07/2018 capovolgeva il principio di diritto, escludendo che il divorzio comportasse la cessazione sic et simpliciter di ogni obbligazione vicendevole (è questo il punto in stridente contrasto tra le due vicine sentenze) ed optava per una soluzione intermedia.
Dichiarava sostanzialmente, la nuova sentenza a sezioni unite, che l’assegno di divorzio dovesse invece essere attribuito alla donna, non automaticamente rapportandolo al precedente tenore di vita, ma comparando le rispettive condizioni economiche e patrimoniali in presenza di sensibile scarto tra le capacità reddituali dei due ex coniugi, dando rilievo al contribuito fornito, in genere dalla donna, nella formazione del patrimonio comune in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità economiche raggiunte dalla famiglia ed all’età’ dell’avente diritto.
Per comprendere appieno la questione, bisogna partire dalla lettura della legge divorzile n. 898 del lontano 1970 (e cioè cinque anni prima della riforma del diritto di famiglia del 1975) ed in particolare della norma sull’assegno, (comma 6° art. 5) che così statuisce: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno per la conduzione familiare e la formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, del reddito di entrambi e valutati tutti i suddetti elementi, anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
Il fatto di avere inserito un criterio sull’altro e l’oggettiva eccessiva genericità della norma dava luogo ad interpretazioni spesso contrastanti fino a che la questione era rimessa alle sezioni unite della Cassazione dell’epoca, le quali stabilirono che il criterio per riconoscere l’assegno in favore della donna e per determinarne anche l’entità, era proprio quello del diritto a mantenere lo stesso tenore di vita al quale avrebbero avuto diritto la donna se il matrimonio non fosse cessato.
Tale tesi rimasta in essere fino alla sentenza del 2017, comportava l’attribuzione di assegni talvolta molto rilevanti, (basta pensare a recenti casi di cronaca), senza tuttavia alcun apporto della moglie nella vita in comune, facendo ipotizzare quasi un diritto ope legis ad una rendita da posizione.
La decisione che è stata emessa l’11/07/2018, se sotto certi aspetti appare salomonica, optando per una soluzione intermedia (e creando non poche problematiche), dall’altro tuttavia ha spazzato via, sia il diritto ad un assegno rapportato semplicemente al tenore di vita, sia la tesi opposta che con il divorzio venga meno ogni diritto all’assegno per la donna senza valutare l’apporto dato alla vita in comune.
In 38 pagine la Corte esamina l’evoluzione storica dell’assegno divorzile rapportato alla situazione sociale italiana attuale e pregressa, ma anche rapportato agli altre legislazioni europee.
Rileva tale recentissima sentenza che bisognava attribuire all’assegno di divorzio una funzione assistenziale e contemporaneamente compensativa e perequativa laddove il contributo fornito alla conduzione della vita familiare costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e responsabili, che possono incidere sotto il profilo economico su ciascuno di essi dopo la fine dell’unione matrimoniale.
In sostanza la sentenza ritiene, al contrario della decisione del 2017, che debba essere riconosciuto un assegno alla moglie, adottando però un criterio composito, alla luce della valutazione comparativa tra le rispettive condizioni economiche e patrimoniali, dando particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto.
In sostanza il giudice non potrà più escludere il diritto della moglie semplicemente sul presupposto della percezione di un reddito seppur modesto, ma dovrà tener conto del diritto della stessa al raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantirle un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate per poter favorire la carriera dell’altro.
IL DIFFICILE COMPITO DEL GIUDICE
I criteri adottati dalla nuova sentenza sicuramente giusti su un piano di diritto, peccano secondo alcuni, di una certa genericità rimanendo statuizioni di principio, ma senza alcuna indicazione in concreto di quali percentuali servirsi o quali parametri economici adottare e con il rischio che, il criterio da adottarsi, per le determinazione dell’assegno divorzile, del “tenore di vita” pur escluso, possa rientrare dalla finestra.
Quanto all’adeguatezza dei mezzi la Cassazione ritiene che questa può essere valutata non solo in relazione alla loro mancanza o insufficienza oggettiva, ma anche in relazione a quello che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare e che, sciolto il vincolo, dà luogo ad effetti vantaggiosi solo per un coniuge, escludendo ingiustamente l’altro che si troverebbe depauperato nonostante l’apporto fornito nel menage comune.
In concreto il giudice dovrà verificare se il tenore di vita raggiunto dalla famiglia risulti prodotto, sia pure indirettamente, anche tramite la partecipazione del coniuge richiedente l’assegno divorzile e in che misura ciò sia avvenuto ed ancora in che misura sia stata sacrificata la vita professionale o lavorativa della donna in favore dell’uomo, rispetto quanto avrebbe potuto ottenere se non avesse dedicato le sue energie alla famiglia ed alla creazione del patrimonio comune.
Non sfugge in effetti una certa astrattezza dei principi che dovranno trovare un’applicazione pratica nelle sentenze.
È chiaro ed evidente che il tentativo di dimostrare da parte del richiedente, la propria partecipazione al menage comune ed il fatto che le potenzialità reddituali ed economiche del marito derivino anche e soprattutto dalla collaborazione della moglie, creerà un allungamento dei processi, in quanto sarà presumibilmente necessario espletare prove che prima non apparivano opportune.
Se quindi è pacifico che il problema non si pone per le unioni di breve durata, la questione è sicuramente rilevante per i divorzi che sopravvengono dopo molti anni dal matrimonio e dopo che il marito ha costituito una proprio patrimonio e comunque una propria sicurezza economica a scapito del minor reddito della moglie.
Apparirà sicuramente molto complessa la dimostrazione del contributo fornito dall’ex coniuge richiedente, alla formazione del patrimonio comune e personale in rapporto alle potenzialità residuali presenti e future dell’avente diritto. Infatti dovrà prima procedersi a un raffronto delle due posizioni economiche e poi, in caso di disparità rilevante, bisognerà esaminare se il reddito ed il patrimonio creato dal marito, sia anche conseguenza (il che appare sotto certi aspetti presunto) dell’attività prestata dalla moglie e del contributo da essa fornita alla formazione dei beni ed al raggiungimento delle rilevanti soglie economiche alle quali è pervenuto il marito.