La giurisprudenza in questi ultimi anni è tornata più volte sul tema della pensione di reversibilità, in taluni casi modificando o aggiornando precedenti orientamenti.
Ricordiamo innanzitutto che per “pensione di reversibilità” si intende il trattamento economico che viene riservato dall’Ente previdenziale ai superstiti del pensionato o del lavoratore deceduto.
La pensione di reversibilità di norma spetta al coniuge a domanda, anche se separato o divorziato, purché in questo ultimo caso titolare di un assegno a carico del coniuge defunto.
Inoltre spetta ai figli se, alla data del decesso del genitore, costoro non abbiano ancora raggiunto la maggiore età.
In taluni casi spetta anche fino ai ventisei anni se studenti universitari, purché a carico del defunto ovvero con problemi fisici o mentali.
IL DIRITTO ALLA REVERSIBILITA’ IN CASO DI SEPARAZIONE
Nessun problema sussiste nel caso di separazione dei coniugi sia essa consensuale, giudiziale, giudiziale con addebito o per negoziazione assistita.
Unico problema sussisteva nell’ipotesi di separazione con addebito laddove in precedenza si riteneva che l’addebito e cioè la responsabilità dichiarata nel fallimento dell’unione, precludesse alla moglie il diritto alla pensione di reversibilità.
Tuttavia è ormai pacifico (ex multis ricordiamo Cass. n° 9649 del 12/05/2015 e Corte Costituzionale n° 286/87) che per ottenere la reversibilità dal coniuge defunto e separato è sufficiente la dimostrazione del precedente rapporto di coniugio e l’intervenuta pronuncia della separazione da parte del Tribunale, divenendo irrilevante l’addebito della separazione.
Poiché infatti il fine della pensione di reversibilità è quello di garantire al coniuge sopravvissuto la possibilità di sostenersi, e tenuto conto che, in caso di necessità il coniuge scomparso sarebbe comunque tenuto a fornire alla moglie anche se separata con addebito, gli alimenti, egualmente a questa non può essere inibito il diritto alla pensione di reversibilità, anche se responsabile del fallimento dell’unione.
Quindi attualmente il fatto di essere separati dal proprio coniuge non preclude alcun diritto anche perché, secondo la dottrina e la giurisprudenza, la separazione, a differenza del divorzio, si limita a porre il matrimonio in uno stato di quiescenza, al quale può sopravvenire il divorzio, la riconciliazione oppure i coniugi possono rimanere separati.
Dunque qualunque sia la motivazione o la procedura utilizzata, al coniuge superstite separato spetterà comunque il diritto alla pensione di reversibilità.
LA REVERSIBILITA’ IN IPOTESI DI DIVORZIO
Il divorzio, in entrambe le forme di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario viceversa annulla il matrimonio e dunque teoricamente dovrebbero venir meno anche gli effetti relativi al diritto alla reversibilità.
Tuttavia l’art. 9 commi 2 e seguenti della legge 898/70 e successive modifiche, prevede espressamente la possibilità di accedere egualmente alla pensione di reversibilità, purché il coniuge sia titolare di assegno divorzile.
Più esattamente a differenza della separazione nella quale comunque il coniuge ha sempre diritto alla pensione di reversibilità, nel divorzio devono sussistere tre requisiti:
a) Essere titolare di assegno divorzile;
b) Non essere passata a nuove nozze;
c) Il rapporto di lavoro da cui consegue il trattamento pensionistico deve essere precedente alla sentenza di divorzio;
SE INVECE LA DONNA SI RISPOSA SUCCESSIVAMENTE
Le ipotesi previste dalla normativa sono due.
L’una in cui l’ex marito, condannato a pagare l’assegno divorzile, muoia senza lasciare alcun altro coniuge avente diritto alla pensione.
In tal caso il coniuge divorziato avrà diritto all’intero trattamento pensionistico.
Non sarà necessario adire il Tribunale e l’interessato potrà direttamente procedere alle incombenze amministrative per l’ottenimento del beneficio.
Solo in caso di resistenza dell’Ente obbligato egli si rivolgerà al magistrato competente per la causa pensionistica.
La seconda situazione viceversa è estremamente più complessa ed è quella in cui vi sia un altro coniuge avente diritto anch’esso al trattamento di reversibilità.
In tale ipotesi, il coniuge divorziato superstite dovrà rivolgersi al Tribunale per la determinazione della propria quota.
Il Tribunale provvederà a determinare per il coniuge divorziato una parte della pensione e delle altre indennità, tenendo conto della durata del matrimonio secondo la norma di cui alla legge 898/70.
LA LITE FRA LA PRIMA E LA SECONDA MOGLIE
In caso di più mogli sopravvissute, il criterio che la norma indica per la suddivisione delle quote di pensioni di reversibilità fra le mogli superstiti è la “durata del rapporto” vale a dire la durata del matrimonio intendendosi il periodo che intercorre fra la data del contratto matrimoniale le pubblicazione della sentenza di divorzio.
L’applicazione così netta della norma comportava tuttavia delle notevoli ingiustizie.
Infatti accadeva frequentemente che ci si trovasse di fronte ad un notevole incremento della quota spettante al primo coniuge, rispetto alla quota spettante al secondo coniuge con grave ingiustizia sotto un piano sostanziale.
Infatti in genere la relazione con quello che diverrà il secondo coniuge inizia durante il rapporto matrimoniale o subito dopo.
Tuttavia il matrimonio con la seconda compagna non può essere contratto se non dopo la pronuncia ed il passaggio in giudicato del divorzio.
In questa maniera accadeva che il primo matrimonio spesso presentava una durata formale di venti o trent’anni, (tenendo conto dei procedimenti intercorsi fra le parti, le impugnazioni fino al passaggio in giudicato del divorzio), mentre il secondo matrimonio, vale a dire quello con la compagna che trascorrerà la maggioranza della vita con il defunto e gli ultimi anni di malattia, risulta di pochi anni.
In queste condizioni, applicando la normativa divorzile che appunto tiene conto solo della durata degli anni di matrimonio accadeva che alla prima moglie con la quale non vi era stato più alcun rapporto da decine di anni , veniva attribuita la maggior quota della reversibilità.
Mentre alla seconda moglie, che aveva potuto contrarre matrimonio solo dopo le lungaggine processuali ed il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, veniva attribuita una quota di pensione minima, pur essendo colei che si era dedicata al proprio compagno per la maggioranza della vita e soprattutto per la parte finale e meno felice.
I CRITERI CORRETTIVI
Per ovviare alla disparità di trattamento della suddivisione delle pensioni soltanto considerando il dato matematico della durata del matrimonio, la Cassazione in più riprese ha introdotto dei criteri correttivi, ritenendo che si debba valutare anche la situazione economica dei due coniugi, non dovendosi quindi attenere il giudice ad un mero calcolo matematico.
Sul punto interveniva anche la Corte Costituzionale con al sentenza n° 419/99 ritenendo che all’espressione “…tenendo conto della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali…” se da un lato non può essere attribuito un significato diverso da quello letterale, tuttavia rimane ammissibile l’utilizzazione anche di altri criteri non potendosi però prescindere dal valore preponderante del calcolo matematico e della durata dei matrimoni.
La Suprema Corte è tornata sul punto con varie sentenze, per esempio con la decisione 19/02/2003 n° 2471, precisando come, in ragione del carattere solidaristico della pensione di reversibilità ed alla luce dei precetti costituzionale di eguaglianza sostanziale e di solidarietà sociale, nonché tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale, la ripartizione del trattamento di reversibilità in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, deve essere effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata del rapporto matrimoniale ossia dal dato numerico rappresentato dalle estensioni temporali dei rapporti matrimoniali degli stessi coniugi con l’ex coniuge deceduto, anche ponderando ulteriori elementi, quali l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato al momento del decesso e le condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda.
Ciò affinché l’ex coniuge non sia privato dei mezzi indispensabile che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l’assegno di divorzio ed il secondo coniuge possa a propria volta mantenere il tenore di vita che il de cuius gli aveva assicurato in vita.
L’ASSEGNO DIVORZILE UNA TANTUM
Come si è visto il presupposto per ottenere la pensione di reversibilità è quello di vedersi attribuire dal Tribunale un assegno divorzile.
In precedenza tentativi giurisprudenziali di saltare l’ostacolo, avevano indicato che la reversibilità sarebbe spettata egualmente anche in assenza di un assegno divorzile, purché però la moglie sopravvissuta potesse dimostrare che in astratto ne avrebbe avuto diritto.
Tali orientamenti hanno avuto vita breve grazie anche ad un intervento legislativo interpretativo.
Il problema che invece è rimasto è quello di determinare se in caso di definizione dei rapporti con la moglie mediante il cosiddetto “assegno una tantum” previsto espressamente dalla legge 898/70, il coniuge potesse aver diritto egualmente alla pensione di reversibilità.
Ricordiamo che l’assegno una tantum è una forma definitiva e satisfattiva di ogni credito del coniuge avente diritto ed è prevista espressamente dal comma 8° dell’art. 5 della legge 898/70 e successive miotiche.
Espressamente la norma statuisce che “Su accordo delle parti, la corresponsione può avvenire in un’unica soluzione, ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”.
L’assegno una tantum può consistere secondo una giurisprudenza ormai consolidata, non solo in una somma di denaro, ma anche un attribuzione di beni o vizi o comunque di altre utilità specificatamente indicate da valere quale definizione di ogni rapporto.
ASSEGNO UNA TANTUM E PRECLUSIONE DELLA REVERSIBILITA’
Di norma l’assegno una tantum impediva anche il riconoscimento del trattamento pensionistico di reversibilità.
Tuttavia alcune decisioni di merito si esprimevano in senso opposto, rilevando che, se era vero che non potevano essere avanzate ulteriori pretese economiche, tale dizione riguardava il marito, ma rimanendo il presupposto del’assegno divorzile, diveniva irrilevante se questo fosse attribuito in ratei mensili o in un’unica soluzione.
Dopo contrapposti orientamenti interveniva la sentenza della Cassazione Sez. Lavoro n° 9054 del 05/05/2016.
La questione era sorta in quanto la donna aveva ottenuto in sede divorzile dal marito il riconoscimento del diritto di abitazione sul’appartamento di proprietà e di comodato sui mobili esistenti contestualmente alla rinuncia dell’assegno di mantenimento già previsto in sede di separazione.
L’INPS sosteneva che l’attribuzione era equiparabile ad una previsione “una tantum” e conseguentemente non ci sarebbero stati i presupposti ex art. 9 comma II della legge 898/70 per il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano dato ragione alla donna condannando l’INPS.
INTERPRETAZIONE RESTRITTIVA DELLA CORTE SUPREMA
La Cassazione viceversa è stata di diverso avviso ritenendo come, al di là della qualificazione che le parti danno all’attribuzione patrimoniale, resta il fatto che, allorché venga data in sede di divorzio una specifica somma di denaro o un’altra utilità a definizione tombale dei rapporti economici tra ex coniugi in un'unica soluzione, come nel caso in esame, (il diritto di abitazione e di uso dei mobili con rinuncia ad ogni altro diritto), non può essere più riconosciuta la pensione di reversibilità.
Ciò in quanto il presupposto del diritto è che il richiedente, al momento della morte dell’ex coniuge sia titolare di un assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto, né è sufficiente come si diceva che egli si trovi nelle condizioni per ottenerlo in astratto.
In tal senso la legge n° 263/2005 ha specificato che la titolarità dell’assegno deve essere reale e riconosciuta dal Tribunale e non astrattamente prevedibile.
Per quanto riguarda poi l’assegno una tantum, ponendosi in contrasto con una precedente decisione della Cassazione (13108/10) la Corte Suprema escludeva il diritto alla pensione di reversibilità, rimanendo tale beneficio strettamente ancorato ad una erogazione economica rappresentata da un assegno divorzile periodico.
Infatti la pensione di reversibilità avrebbe in tal caso lo scopo di sostituirsi a tale assegno divorzile periodico.
Di contro la mancanza di tale previsione non può che escludere il diritto al trattamento pensionistico di reversibilità.