Torniamo sull'argomento del rifiuto di far vedere i figli al padre con due recenti decisioni della cassazione: l'una penale e l'altra emessa in Sede Civile.
Di norma il genitore non può assolutamente impedire che i figli trascorrano con il padre adeguati periodi di permanenza come stabilito in sede di separazione e divorzio in quanto diversamente incorrerebbe nelle sanzioni civilistiche e talvolta anche nel reato di aver eluso l’esecuzione di un provvedimento giudiziale ex art.li 388 I e II comma c.p.
I DIRITTI DELLA MADRE
In tal senso fra le molte decisioni conformi ricordiamo Cass. pen. n° 27995/2009 che condannava la madre per aver impedito che il figlio trascorresse con il padre il periodo di permanenza stabilito in sede di separazione in dispregio di un provvedimento giudiziale quale appunto era la sentenza della separazione.
Eludere il provvedimento ha il significato di rendere vane le legittime aspettative del padre e quindi il rifiuto opposto dalla moglie anche se motivato dalla decisione unilaterale di proteggere il figlio, non esclude la Commissione del reato penale.
La giurisprudenza ha chiarito in più occasioni che la madre deve spogliarsi di ogni istinto egoistico annullando i motivi di repulsione nei confronti dell’altro ex coniuge, agendo nel solo interesse del minore e ciò al fine di un suo armonioso sviluppo psicofisico.
Dell’argomento ce ne siamo occupati più volte, stante l’estrema ripetitività dei casi, ricordando che, il genitore il quale si veda rifiutare il diritto di esercitare il diritto di visita nei confronti dei figli, può agire sia ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. sia nei casi più gravi con la denuncia penale.
Sotto il primo profilo, in caso di rilevanti inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore o che ostacolino un corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, il magistrato civile, può assumere provvedimenti punitivi che consistono nell’ammonire il genitore inadempiente e nel disporre il risarcimento dei danni nei confronti del minore ovvero del genitore, condannando il responsabile al pagamento di una sanzione amministrativa fino ad un massimo di € 5.000,00.
Nei casi più gravi può essere revocato l’affidamento condiviso ed il collocamento, in favore dell’altro genitore.
Anche se va detto che molto raramente viene modificato l’affidamento, tuttavia il numero elevato di casi di mancato rispetto degli ordini del Tribunale comporta che, sia il Tribunale Civile, che il Giudice Tutelare il quale deve vigilare sull’osservanza delle condizioni che il Tribunale ha stabilito ai sensi dell’art. 347 c.c., sia infine il Giudice Penale nei casi più gravi, siano tutti coinvolti in tale casistica.
IL LEGITTIMO RIFIUTO
La questione esaminata dalla sentenza penale di Cassazione n° 15971 del 18/04/2016, prendeva le mosse da una situazione familiare particolarmente dolorosa laddove la figlia della coppia era una bambina affetta da handicap ed il padre aveva ottenuto il diritto di visita, per alcuni giorni a settimana.
Di contro la madre, nonostante al decisione del Tribunale impediva tale diritto di visita e pertanto veniva rinviata a giudizio per la mancata esecuzione dolosa del provvedimento del Tribunale di Padova ai sensi degli art.li 81 c.p.v. e 388 I e II comma c.p..
Il Tribunale di Padova e poi la Corte d’Appello di Venezia confermavano il proscioglimento della donna in quanto questa aveva effettivamente rifiutato la consegna della figlia al padre, ma ciò spinta dal timore che potesse derivare alla minore grave danno alla salute o alla vita.
Dunque mancava l’elemento soggettivo del contestato reato per la ritenuta esistenza, in capo all’imputata di un eccesso colposo determinato dallo stato di necessità.
Avverso questa sentenza tuttavia proponeva ricorso per Cassazione il padre rilevando che dovesse essere comunque ritenuta responsabile la moglie, laddove già nel processo in Tribunale relativo alla separazione erano state effettuate delle consulenze tecniche che avevano riconosciuto al padre piena capacità di gestire la bambina e dunque la madre non poteva giustificarsi, essendo già stata oggetto la questione del processo in Tribunale.
La Cassazione accoglieva il ricorso solo agli effetti civili, rilevando che se è vero che si possono ostacolare le visite, ciò è giustificabile soltanto per gravi motivi sopravvenuti.
In tal caso il genitore collocatario, se ritiene necessario interrompere gli incontri in attesa di proporre ricorso al Tribunale per ottenere la modifica dei provvedimenti preesistenti, può legittimamente inibire le visite all’altro genitore, tuttavia ciò soltanto per gravi circostanze sopravvenute (ad esempio un’incapacità fisica o psichica dell’altro genitore, per esigenze del bambino non supportabili dal padre, o comunque per circostanze di estrema gravità).
Un simile comportamento è ammissibile sempre che si presenti tempestivamente un ricorso al Giudice Civile per la modifica della separazione o la revisione delle condizioni divorzile.
VA TENUTO CONTO DELL’ETA’ DEI FIGLI
Del tutto diversa è la situazione in cui è il figlio ad opporsi alle visite.
Recentemente sono emerse alcune decisioni che hanno ritenuto legittima la volontà del figlio di non frequentare più il padre allorché si tratti di ragazzi in età adolescenziale dei quali bisogna tener conto delle relative decisioni.
In tal senso ad esempio il Tribunale di Torino già con decreto del 04/03/2016 e seguendo il suggerimento della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha precisato che la coercizione per il raggiungimento dell’obbiettivo della frequentazione non può giustificare la compressione di una volontà del minore allorché questi abbia raggiunto un età tale da permettere un adeguata valutazione della situazione.
Infatti è pur vero che in linea di principio sussiste il diritto del figlio al mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore ex art. 337 ter c.c., e contestualmente il diritto del genitore non collocatario a mantenere un rapporto affettivo con i figli, ma tale ultimo diritto non può tuttavia travolgere le esigenze e la volontà del minore coinvolto.
GLI ADOLESCENTI
Sul punto è intervenuta recentemente la Cassazione con la decisione n° 20107 depositata il 07/10/2016 con al quale è stata affrontata la problematica di una figlia adolescente la quale da lungo tempo rifiutava le visite dal padre fino a che il Tribunale in I grado, pur collocando la ragazza presso la madre e regolamentando il diritto di visita con il padre, demandava la questione ai servizi sociali di Milano per valutare tra l’altro l’esercizio dei diritto di visita e la fissazione di tempi e modalità di permanenza della figlia presso il padre segnalando alle Autorità competenti eventuali comportamenti anomali.
In sede di Appello il padre si era lamentato che di fatto, a causa dell’asserita volontà imposta dalla madre alla figlia, questa continuava a rifiutare qualsiasi forma di contatto con il padre.
Con l’occasione il padre richiedeva anche la riduzione del contributo mensile al mantenimento.
Nel caso in esame la ragazza ormai quindicenne (come ben sanno gli avvocati le questioni relative ai figli si sgonfiano negli anni dei processi con la crescita degli interessati), aveva espresso una posizione decisamente chiara ed argomentava circa la sua indisponibilità attuale alla partecipazione ad un progetto di riavvicinamento con il padre, giustificando peraltro questa indisponibilità sentendosi ferita dalla poca attenzione dedicata a suo tempo dal padre.
Rilevava la Cassazione che la mancata partecipazione alle visite di questi non poteva essere imposta, ma si sarebbe dovuta verificare solo su basi spontanee e non certo perché dettate dai Tribunali o dai Servizi Sociali, né tantomeno dalla Corte Suprema.
Ricordiamo per inciso sotto tale profilo che il rifiuto di un figlio minore o maggiorenne non autonomo a vedere il padre non legittima quest’ultimo ovviamente ad interrompere l’elargizione economica stabilita dal Tribunale.
LA PRESUNTA RESPONSABILITA’ DELLA MADRE
In realtà il fenomeno dei figli anche giovanissimi che rifiutano i contatti con il padre è davvero frequente nelle aule di giustizia, tant’è che ormai i giudici sbrigativamente passano “la patata bollente” agli uffici del Comune o della Asl che tramite gli assistenti sociali o familiari o gli psicologi dovrebbero favorire detti incontri. Così iniziano estenuanti procedure, incontri, riunioni, consessi e simili che finiscono, anziché con il risolvere i problemi, per complicarli, complice anche la gran massa di casi che finiscono negli uffici, la scarsezza, e diciamolo pure, spesso l’incompetenza di qualche addetto, che nulla toglie ai meriti degli altri, che si trovano, almeno nei grossi centri, a far fronte, con poche unità, a centinaia di casi all’anno.
Purtroppo è vero che le madri, terrorizzate dal rapporto che questi uffici possono discrezionalmente trasmettere al magistrato in un senso o nell’altro, finiscono con il rovinarsi l’esistenza in uno stato di ansia.
Molti anni fa capitò al mio studio di occuparsi del caso di un corrotto assistente sociale che, in cambio di rapporti favorevoli al Tribunale circa l’affidamento dei figli, pretendeva controprestazioni, fino alla condanna a 4 anni di reclusione per violenza sessuale.
L’esperienza insegna che, quando ci si trova in una situazione in cui il bambino rifiuta, senza alcuna pressione materna, la figura del padre, per prevenire le lungaggini e le trafile di cui si è detto, la cosa migliore è quella di giocare di anticipo e di presentare per primi il ricorso al giudice (della separazione, del divorzio o al tutelare) chiedendo l’accertamento della situazione e della assoluta estraneità della madre, prima che sia il padre ad attaccare con l’accusa all’ex coniuge di estraniare il figlio.