La madre può ottenere l’adozione del proprio figlio da parte della compagna. Resta escluso che una coppia omosessuale possa adottare un bambino che non sia figlio naturale di uno dei due.
La conferma di altre sentenze di merito
In realtà la Corte Suprema non ha fatto altro che confermare le varie sentenze che già erano state emesse sul territorio nazionale secondo le quali, il bambino, figlio legittimo della madre, potesse essere a lei affidato o collocato e, talvolta adottato dalla compagna di questa nel “preminente interesse del minore”.
Il che in pratica significa che l’adozione da parte della compagna può essere ritenuta legittima, solo in assenza del padre o allorché la figura dello stesso appaia nociva per la crescita del bambino, secondo il rigido apprezzamento della situazione di fatto da parte del Magistrato.
Questa fattispecie era già stata esaminata e ritenuta legittima nel presupposto che l’adozione rispondeva pienamente all’interesse del minore.
Il problema, come vedremo, nasce, allorchè “la mancanza del padre” non appare come una circostanza sopravvenuta, bensì come un fatto programmato a tavolino.
La decisione del Tribunale
La vicenda nasceva da una relazione omosessuale ampiamente consolidata tra le due donne fin dal 2003.
Nel 2009 nasceva una bambina che, come dichiarato, era “il frutto di un progetto genitoriale maturato e realizzato con la propria compagna di vita”.
La decisione di scegliere la compagna più giovane ai fini della gravidanza veniva dettata dalle maggiori probabilità di successo delle procedure di procreazione medicalmente assistite effettuate in Spagna.
Utilizzando la legge spagnola le due donne si erano sposate e dopo la nascita della bambina, questa era vissuta sempre all’interno del contesto familiare, aveva frequentato la scuola, aveva instaurato rapporti sociali con le altre bambine della sua età e nel rapporto erano anche presenti i nonni e altri familiari delle due.
Il Tribunale di Roma, acquisito l’assenso della madre e valutata la volontà della minore sull’adozione, sentito il Pubblico Ministero minorile, il quale si era opposto, con la sentenza n. 299 del 2014 aveva ordinato farsi luogo all’adozione, così come richiesto, aggiungendo al cognome della bambina quello dell’adottante.
Il procedimento di appello
Pur essendo stata la decisione motivata su argomentazioni piuttosto solide (non era ravvisabile nel nostro ordinamento alcun divieto per la persona singola di adottare ed alcuna limitazione normativa poteva desumersi dall’orientamento sessuale delle parti, tenendosi altresì conto che il legislatore aveva comunque inteso favorire il consolidamento dei rapporti tra i minori ed i parenti o le persone che già se ne prendevano cura e comunque rispondendo l’adozione all’interesse del minore), il Procuratore proponeva egualmente l’impugnazione.
In particolare il Procuratore presso il Tribunale dei minori, rilevava che la bambina non si trovava affatto in stato di abbandono, di conseguenza non appariva collocabile in affidamento preadottivo, in ragione della presenza della madre perfettamente in grado di occuparsene.
La Corte di Appello minorile respingeva tuttavia l’impugnazione principale ed anche la richiesta del Pubblico Ministero di nominare un curatore speciale della minore, non ritenendo sussistere alcun contrasto da dirimere.
Il ricorso in Cassazione
Il Procuratore impugnava tale sentenza avanti la Corte di Cassazione.
Nel procedimento avanti la Corte Suprema concludeva per la remissione degli atti alle sezioni unite ed in subordine chiedeva l’accoglimento del ricorso e l’annullamento dell’adozione.
La Cassazione viceversa confermava sostanzialmente tutte le motivazioni del Tribunale e della Corte di Appello ritenendo legittima l’adozione pronunciata nell’interesse della minore.
Il problema delle coppie gay
Ci sembra tuttavia che nelle diatribe dottrinarie si sia perso di vista il nocciolo della questione.
Se si esamina, infatti, lo sviluppo della giurisprudenza nelle poche decisioni emesse dai vari Tribunali, è evidente che si è passati gradualmente da una situazione iniziale, nella quale la donna all’interno di una coppia eterosessuale concepiva un figlio e poi successivamente iniziava una relazione omosessuale, ottenendo dal Tribunale l’affidamento esclusivo o comunque il collocamento e talvolta l’adozione da parte della compagna a causa della totale inaffidabilità del padre (situazione di tossicodipendenza, violenze, assenza e simili) ad ipotesi del tutto diverse, strumentali e pianificate ex ante.
Infatti ora, approfittando dell’apertura della giurisprudenza che sostanzialmente autorizza l’adozione in tutti quei casi in cui l’altro genitore semplicemente non sia identificabile, è sufficiente dar luogo alla procreazione assistita con un donatore più o meno ignoto, (come nel caso esaminato dalla Cassazione) ed in assenza di un padre, ottenere l’affidamento esclusivo, il collocamento e poi l’adozione da parte della compagna.
Oppure, in maniera molto più discutibile, (il caso Vendola di cui si è parlato in altro precedente commento in tema di coppie omosessuali maschili), è d’uso servirsi del sistema “dell’utero in affitto” utilizzando una donna disponibile (a lauto pagamento) e poi, in uno Stato estero procedere all’affidamento e nel caso all’adozione da parte dell’altro.
E’ sotto gli occhi di tutti, la necessità di una regolamentazione legislativa, anche per chiarire, nel contrasto con le altre legislazioni europee, cosa sia lecito e quali procedure viceversa siano da ritenere illegittime.
Soprattutto nell’interesse del minore.